Cos’è Improvisti

“Improvisti”, 26 dicembre 2018, al Teatro Mecenate di Arezzo

Inizio subito così: Improvisti è il mio format preferito, quello che amo più improvvisare. Nasce praticamente insieme ad Areamista, dalle menti di Alberto Ceville, Gregory Eve e Claudia Bonacchi in collaborazione con Giovanni Palanza, va quindi in scena da quindici anni. L’abbiamo portato in decine di teatri per centinaia di repliche per la gioia di migliaia di spettatori, ed è l’unico format che pratico frequentemente del quale non ho pensato neanche una volta «È l’ora di fare una pausa».

Prima di continuare con le considerazioni personali, vado con le info più tecniche: è uno “short-form” (o anche “game-form” per i palati più fini), uno spettacolo cioè composto da una serie di esercizi brevissimi, intervallati dagli interventi di un implacabile presentatore che chiede continuamente al pubblico elementi coi quali condire le prove cui gli attori sono sottoposti. Tra gli spettatori viene selezionata una giuria di tre persone che esprime una preferenza, votando l’attore migliore dell’improvvisazione appena vista: quello che che a fine manche ha preso meno voti viene sottoposto al tremendo “Improvisto”, una sorta di penitenza (o, se va bene, un’occasione per fare una bellissima figura!), un’improvvisazione particolarmente cattiva che lo metterà a dura prova. 

Improvisti si adatta a ogni location e a ogni tempistica (da un minimo di dieci minuti a un massimo di un’ora e mezzo, anche suddivisa in più parti), si appiccica velocemente addosso allo spettatore; cambia, si modifica, migliora sempre.  Si è adattato negli anni persino ai diversi canali in cui abbiamo provato ad infilarlo, come la radio – esperienza stupenda – e la diretta web, sotto lockdown. 

Abbiamo una base di una quarantina di esercizi che si possono alternare per proporre una scaletta continuamente diversa. Si va da giochi nudi e crudi, a improvvisazioni con particolari difficoltà, a canzoni improvvisate, all’imposizioni di personaggi, luoghi, caratteristiche, limitazioni fisiche o di parola. Vi si possono vedere pariodiati stili letterari, televisivi, poetici, cinematografici, musicali. 

La maggior parte degli esercizi, oltre che la presentazione e l’interazione col pubblico, sono rapidissimi e prettamente comici, come si richiede a un classico “short-form”. Tra gli addetti ai lavori, gli improvvisatori, gira l’opinione per cui, per vari motivi, gli “short” e i “game” siano meno nobili rispetto ai format più distesi e drammatici. Vi si trovano una gamma ristretta di emozioni, sopravvivono semplicemente grazie all’utilizzo di gag, eccetera. Io trovo questa posizione un po’ limitante, anche nell’idea che si ha dell’improvvisazione, che è una materia infinita, modellabile solo grazie alle forme (i format) che le permettono di essere messa in scena e che per loro stessa natura sono diverse tra loro. È di scarso interesse, credo, comparare spettacoli diametralmente opposti. 

Penso piuttosto che un bravo improvvisatore debba saper fare tutto, capire il format, capire i momenti all’interno dello spettacolo, il pubblico e lo spazio, e portare sul palco le energie e le capacità migliori.