Antologia delle cose interrotte/5: Stefano Benni

BEPPINO E LEMONTRI’
di Stefano Benni

Le stagioni scorrevano banali a Sant’Annazzo sul Serio. Sorto nelle pieghe dell’appennino tosco-emiliano, tra la Valgrigiona, pungolata di tronchi rinseccoliti dal freddo e di tegole portate via dalla tramontana, e la Vallinsù, assolata e decorata di boschi festosi, era un paese dove l’Unità d’Italia sembrava non essere arrivata. La stazione ferroviaria era in costruzione da un centennio, e ormai era adibita a condominio di aracnidi giganti tutelato dalla Guardia Forestale. La Statale 45, detta Via della Mota per le frane a giorni alterni, era la sola connessione con la civiltà. Le uniche cose che cambiavano, nell’avvicendarsi implacabile dei mesi erano due: i cromatismi acquei del torrente Serio (bruno d’autunno, blu d’inverno, verdone a primavera, cristallino d’estate) e gli eventi sociali a carattere etno-gastro-alcoolico-religioso. In particolare:

  • in autunno si festeggia la Madonna Sotto Spirito, l’8 settembre, 24 ore ininterrotte di rosari e chupiti di grappa;
  • d’inverno abbiamo il Befanale, una tredici giorni di fuoco (anche materiale, non solo metaforico), gare di stornelli ubriachi e tornei di tresette col morto che si tengono a turno nelle stalle e nelle rimesse dei santannazzesi; il 6 gennaio sera, tramite una complicatissima media geometrica tra punti a carte, litri/gradi di alcool assunti e centimetri di epidermide ustionata, si stabilisce il campione assoluto;
  • a primavera è il patrono Sant’Annazzo a far impallidire le festività pasquali: noto semi-martire del IV secolo diccì, volle testimoniare la propria castità facendosi pubblicamente evirare. Il paesano doc è aduso ricordare l’episodio con una preghiera sottoforma di sonetto dalla rima non ripetibile. Ne è conservato un pallido esempio nell’antico adagio santannazzese:

A Befanale con i tuoi,
a Sant’Annazzo cazzi tuoi.

Ma il vero evento avviene in estate, quando c’è lei, l’unica, l’indescrivibile Sagra delle Sagre. Non è esatto dire che la Sagra delle Sagre si tiene in estate: in realtà per i santannazzesi l’estate è un caldo inframezzo che scontorna la Sagra delle Sagre. Si tratta di una sgrifata di massa a carattere cumulativo, centodieci giorni di puro delirio gastrico: s’inizia il 10 maggio con il solo banco di donna Romina, attorno al quale il paese si riunisce per gustare la specialità locale, i famigerati Funghi al Cubo – funghi grigliati su funghi fritti in sugo di funghi. Dal giorno dopo, ogni 24 ore si unisce un altro banco con un’altra specialità pescata tra le principali tradizioni culinarie italiane, selezionate con cura da una preparata Commissione Sgrifatoria. Alla chiusura del 30 agosto ormai il parco civico si è trasformato in un enorme Woodstock dei tricliceridi.

In occasione della centesima edizione, qualche anno fa, fu proposto un come esperimento un melange di tradizioni, un incontro culturale dove si mixavano le esperienze: bagna cauda preparata da molisani, panini con la mieuza altoatesina, amatriciana sarda. Fu un disastro. Dopo solo quattro giorni dall’apertura, una maxirissa provocò l’istantaneo rovesciamento del sindaco Cassoli, al potere col Partito Sinestro da decenni. Per il Partito Destrista, rappresentato in Comune da un unico consigliere, iniziò un brevissimo momento di gloria: Bambàri fu sindaco per un paio d’ore, almeno fino al discorso insediamento, durante il quale pronunciò frasi destriste che provocarono una nuova rissa, la quale ristabilì la normalità. Questo era lo strumento democratico base attraverso il quale si prendevano le decisioni a Sant’Annazzo: la rissa.

A parte questi momenti, la gioventù a Sant’Annazzo sul Serio non aveva troppi svaghi; ogni giovine virgulto nasceva e cresceva con abitudini simili al resto degli altri adolescenti della nazione, ma con un gap tecnologico di almeno quarant’anni. Al posto degli scùter c’era ancora il Beta, per i quali i distributori pompavano automaticamente miscela al 3%. Invece degli smarfoni, gli incontri erano fissati via cabina telefonica a gettoni. I film non si vedevano al cinema, ma in canonica da don Alino, amante del cinema western, tra le cui pellicole di tanto in tanto scivolava misteriosamente una di genere ‘erotico spinto’.

Tra i ragazzi più strambi di Sant’Annazzo c’è Beppino, figlio di Beppone Sfasciaboschi, il falegname, un enorme uomo parallelepipedico con la base larga quanto un’Ape. Alle Elementari Italo Calvino un giorno un maestro, scherzando, propose ad uno degli allievi di ricavare il volume di Beppone moltiplicando l’area calpestabile per la sua altezza. Il giorno successivo il maestro emigrò misterioramente, dopo che venne notato un frassino conficcato di punta nel suo tetto.

Il figlio Beppino non era da meno in quanto a stazza ma la sua caratteristica più caratteristica era la passione per il legno, in ogni sua forma: fresco, stagionato, segato, tranciato, truciolato, levigato, intagliato, intarsiato, istoriato, bruciato, rivestito (di legno), piallato. Legno. Mamma Ada lo aveva partorito tra assi di castagno destinate alla tranciatura per parquet, e fin dal primo vagito possiamo dire che Beppino non avesse mai respirato aria standard, piuttosto un mix: 74% di ossigeno, 25% truciolato fine di scarto, 1% fumi di coppale. A causa dei pessimi risultati scolastici si ironizzò sul fatto che crescere in quell’ambiente l’avrebbe effettivamente fatto diventare di legno. In prima media, però, Ada e Beppone scoprirono come insegnargi le tabelline: gliele fecero cesellare su una tavolozza di abete. In venti minuti la pitagorica gli si piantò in memoria. Capito il trucco, fu un attimo: mamma Ada gli bruciò i quaderni nella stufa e Beppino cominciò a scalpellare gli appunti su listoni di compensato. Nelle ore di matematica, gli fu concesso di portare in classe un ciocco di quercia secolare, i cui cerchi erano usati come addendi e fattori per fare di conto, al posto della calcolatrice. Alle interrogazioni di storia, riportava gli accadimenti alla classe con estrema dovizia di particolari, grazie a miniature certosine che lui stesso incideva. Gli alunni normali scarabocchiano il banco e ci appiccicano le cicche esauste: il banco di Beppino, con incisa la riproduzione in scala 1:1100 del borgo di Sant’Annazzo, è a tutt’oggi conservato sotto una teca in presidenza, come esempio di maestrìa locale.

Nella fauna femminile locale, spiccava invece l’audacia di Lemontrì. Occhioni neri e capelli lisci lisci, tenuti a bada in maniera semiselvaggia ma mai casuale, con un ciuffo sempre teso a coprire almeno un occhio e mezzo. Non era una fotomodella da rotocalco, tuttavia risultava irresistibile soprattutto per il modo con cui gestiva le sue curve; ogni linea era ben risaltata con un vestiario che risulta riduttivo definire attillato. Si diceva che sotto i fouseaux creasse il sottovuoto. Quando passeggiava in centro gli operai edili a lavoro erano autorizzati a prendere pausa, per evitare danni a cose o persone. A 14 anni Lemontrì aveva già limonato con tutti i coetanei della valle; limonava e poi lasciava perdere, il malcapitato tornava a casa con un secchio di bava in bocca. A lei non interessava l’amore: cercava il bacio perfetto. Solo chi gliel’avrebbe regalato, diceva, sarebbe stato degno di attenzione.

Beppino, invece, era di tutt’altra pasta introversa. Le attività inerenti l’adolescenza gli andavano a genio solo se avevano a che fare col legname. Il calcio gli piaceva, perché era autorizzato a manutenere i pali e le traverse di tutti i campetti del circondario. I compagnucci si compravano gli scarpini nuovi, lui i dischi della scartatrice. Ogni tanto, durante qualche partitella, si alzava un grido schernitorio «Dai Beppì, passa la pialla!» e giù tutti a ridere, ma a lui non importava una sega, tanto per rimanere in tema. In gita e in vacanza andava solo in luoghi boscosi, gli unici giorni di mare i suoi li fecero quando scoprirono il parco di San Rossore coi relativi km di pineta sul mare. A sciare lo portarono solo una volta, all’Abetone (manco a dirlo), a 7 anni, ma non faceva altro che puntare gli alberi. E non per errore, li voleva segare tutti con le lamine degli sci. Per finire, il grande tema dell’amore, quel potentissimo motore a trazione ormonale di ogni brufoloso che si rispetti, non lo sfiorava nemmeno: «Pfui, le donne» diceva, «non distinguono un abete da un pino mugo!», e seguitava a segare.

Il giorno del suo diciottesimo compleanno a Lemontrì si aprirono potenzialmente le porte (e le bocche) a tutti i maggiorenni del paese. Confessò alle amiche che si sarebbe limitata ai ventenni per mantenere una certa morale, in realtà babbo Ademaro aveva già estratto dalla soffitta, oliato e lucidato l’arsenale da caccia, ed era pronto a impallinare chiunque fosse rinvenuto in zona con le labbra ad un pH superiore alla media. Lemontrì aspettava la sera del suo diciottesimo da mesi: passò venti minuti a festeggiare in pizzeria e sei ore a continuare la festa sulle panchine dei giardini. La fila dei limonati la mattina dopo terminò in contiguità con quella dei pensionati alle poste, eppure la neomaggiorenne non era soddisfatta. Si ritirò in casa, reintegrò i liquidi perduti con tre barili di gatorade, si passò un panetto di Labello da dodici chilli e si mise a meditare sulle prossime mosse.

In quegli stessi giorni, Beppino sostenne il suo esame di maturità. La tesina che portò era intitolata La Rivoluzione Francese attraverso gli impieghi del legno, ed era illustrata grazie a sei enormi plastici in faggio che Beppone trasportò a scuola col suo celebre Fiat Bellimbusto del ‘64. I plastici mostravano sei momenti topici, dalla Presa della Bastiglia all’ascesa di Napoleone, senza scordare un cenno alla perdita della colonia francese in Medio Oriente che causò la gravissima interruzione di forniture di cedri del Libano. Beppino si dimostrò acuto e appassionato studente e si diplomò a pieni voti al Liceo Unico di Sant’Annazzo, per la gioia di babbo Beppone che ora poteva finalmente godere di un operaio in più a bottega.

Quella stessa sera di metà luglio, la Sagra delle Sagre imperversava: si celebrava l’arrivo del camion delle frattaglie dal Lazio. Per tenere l’apparato oro-faringeo in allenamento, tra un lampredotto e una piadina col crescione, Lemontrì si rinfrescava coi ghiaccioli; mantenevano una buona circolazione sanguigna nelle labbra, idratavano, ma, soprattutto, le offrivano un ottima materia prima per uno dei suoi divertimenti preferiti, lo steccozoo. Ciucciato il ciucciabile, Lemontrì, solo con l’ausilio di lingua e incisivi, dal semplice bastoncino del ghiacciolo fabbricava i più belli animali da zoo. Mentre estraeva un esemplare maschio di Macaco Durbans lappato di saliva, Beppino – chiamato per riaggiustare la gamba a un tavolo pencolante – vide la scena. Senza pensare, sbottò:
– Ma come hai fatto?
– Passione, risucchio e roteolingua.
– GLOM (pausa imbarazzata).
– Ciao io sono Elisa, ma tutti mi chiamano Lemontrì.
– GLOM.

Beppino aveva sentito parlare di questa leggendaria atleta della fornicazione ma, come ogni cosa che andasse al di là della falegnameria, non l’aveva mai presa in considerazione. Si richinò dunque su quella zampa, e per sbaglio la segò di netto condannando il tavolo con una pendenza dolomitica. Questo momento fu avvertito da tutta la popolazione con estrema gravità: il sindaco interruppe il discorso di benvenuto alle frattaglie da Roma. Il dottor Centamore sospese il massaggio cardiaco di rianimazione al novantenne Gentilino, il quale tirò ingiustamente le cuoia. Un silenzio cosmico cadde su Sant’Annazzo sul Serio; Beppino rificcò velocemente gli attrezzi nel borsone e due scheggie grosse come stuzzicadenti gli si ficcarono nei polpastrelli trafiggendoli da parte a parte: il legno gli si era rivoltato contro, per la prima volta nella sua vita. Il momento era grave, tuttavia non riusciva a capire perché.

Noncurante, si alzò. La popolazione raccolta nel Padiglione Centritalia lo osservava attonita, compresa Lemontrì. Si impose di calmarsi, riprese lucidità, sudato, paonazzo, ebbro, afferrò la ragazza per un braccio, la portò fuori dal padiglione, immaginò di essere nell’unico posto dove si poteva sentire sentimentalmente trasportato (il deposito degli scarti di babbo Beppone) e, come affaticato da uno sforzo immane, bofonchiò le seguenti parole:


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