Antologia delle cose interrotte/2: William Shakespeare

TUTTO PER NIENTE
(le scene sopravvissute ai secoli)
di William Shakespeare

Atto II, scena III

ISTRIONE – Don Riccardo e donna Beatrice, tali e tante son già state le gioie per questo fausto giorno del vostro matrimonio! Eppure, i compagni dei vostri festeggiamenti, han richiesto alla nostra compagnia un’allegrezza in più: una rappresentazione in dedica vostra. Dunque noi istrioni, meglio che raccontarvi una favola di per certo finta, abbiamo scelto una di quelle istorie che miscelano la verità e la leggenda: due ingredienti così dolci quando insieme, avvinti come il tralcio alla pergola, ci portano un frutto più maturo e intrigante.

È una storia avvenuta, così si dice, tanto tempo fa nei dintorni della nostra città di Mantova, quando ancora i boschi coi grandi alberi erano diffusi assai, e molti erano i cittadini come i popolani di campagna che vi si recavano, per far legname e raccogliere frutti o cacciare. Così era di Laura, figlia di contadini, spesso mandata tra gli alberi a raccattare, con mani fini ed occhi curiosi, i doni della natura.

Ella passò gli anni della sua fanciullezza imparando tutto del bosco, e tutto quel che di lì potea capire del mondo; colà coltivò anche le sue speranze di amore. Molti erano i giovani di alto lignaggio, pari al vostro, che venivano lì educati alla caccia. E lei sognava – ogni stagione struggendo un poco di più, come il ceppo d’abete lentamente è rosicchiato dai tizzoni nel caminetto – gli amori cavallereschi, dei quali aveva sentito nelle antiche storie. Ma giovane e poco appariscente com’era, non veniva notata.

Solo don Gioacchino l’aveva in affetto; il rampollo spagnolo, che già sedeva alla mensa dei reggenti di Mantova, teneva infatti più in alta considerazione la dignità umana dei titoli, e salutava la semplice Laura, vezzeggiandola con buffetti, motti, e grandi risa, come si fa con una bambina, più che con una donna.

Laura vagando nei boschi arzilli
poneva il pensiero sempre agli amori
scordandosi fragole e funghi e grilli
pregava Cupido d’ascoltarne gli ardori.

Passando i suoi anni da sola nel pianto
e sol da Gioacchino ormai consolata,
convinta fu, com’era da tanto,
che solo da lui dovea esser’amata.

Or’è qui giacente a’ piedi d’un leccio
intona un bel canto rivolto agli dèi,
quand’è accarezzata da un fiato libeccio
ed un daino è ai piedi di lei.

Il poema, è sicuro, scommetto, vi tedia:
che allora princìpi così la tragedia.

Appare una scenografia silvana. L’istrione esce, una fanciulla è ai piedi di un grande albero.

LAURA – Oh! Che è di questo vento caldo ora, in stagione di castagne? Mentre il cuore rabbrividisce, la natura mi scalda. A tanto ormai è giunta la crudeltà del creato, che dèi, ninfe, elementi e stagioni tutti si accordano per mettermi in dileggio?

Appare un piccolo daino.

LAURA – E chi se’ tu, creatura selvaggia, che non disdegni la mia compagnia? Ti manda un dio annoiato dalle mie canzoni? Sei tu un figlio di Eolo e Zefiro, che mi han sorpreso poc’anzi con questo rèfolo tiepido? È madre Diana che ti spedisce qui, per trarmi in inganno con un po’ di tenerezza? A costei tanto ho richiesto di distogliere dalla caccia Gioacchino, perché finalmente egli cacci la vera fiera dei boschi. O Amore, o Cupido come lo chiamano i Greci, stesso ti manda, e la madre sua Venere, che soglion prendermi in ischerzo per le mie vane speranze? O forse, giusto, sei il messo di Bacco! Che l’ebbrezza colga Gioacchino e me lo conduca! Che empio di vino si dia a me, giacché io empia di passione mi farò prendere. Ecco, anche tu ti ritrai s’io tendo la mano, e nella selva te ne scappi.

VOCE – Forse nessuno mi manda; o qualcuno di questi che hai nominato è me stesso com’io son qualcuno di questi.

LAURA – Chi parla? Gioacchino? Siete voi? Non scherzate. Chi v’è dietro l’albero?

VOCE – Un minuto appena pretendevi di parlare con un daino, e adesso non hai fede che un daino non sappia risponderti.

LAURA – Vi burlate di me? Son semplice ma non sciocca, e giovane, sì, ma non più bambina. Svelatevi dunque, o terrei voi per sciocco e bambino!

Appare in scena, da dietro l’albero dove il daino era scomparso, un giovane, vestito solo con pelli ed uno scettro dorato in mano, snello e virile.

AMORE – Ebbene, eccomi. Di Venere il figlio in persona. Latore unico del desiderio, creatore instancabile di passione:

Chi crederia che sotto umane forme
e sotto queste pastorali spoglie
fosse nascosto un dio?
Non mica un dio selvaggio,
o de la plebe degli dèi,
ma tra’ grandi e celesti il più potente,
che fa spesso cader di mano a Marte
la sanguinosa spada, ed a Nettuno
scotitor de la terra il gran tridente,
ed i folgori eterni al sommo Giove.
In questo aspetto, certo, e in questi panni
non riconoscerà sì di leggiero,
Venere madre me suo figlio Amore.

Queste selve oggi ragionar d’Amore
s’udranno in nuova guisa; e ben parrassi
che la mia deità sia qui presente
in se medesma, e non ne’ suoi ministri.
Sospirerò nobil sensi a’ rozzi petti,
raddolcirò de le lor lingue il suono:
perché, ovunque ‘i mi sia, io sono Amore,
ne’ pastori non men che gli eroi,
e la disuguaglianza de’ soggetti
come a me piace agguaglio; e questa è pure
suprema gloria e gran miracol mio:
render simili a le più dotte cetre
le rustiche sampogne.

Ma tu dubiti, mortale. Ti toglierei il dubbio forse se ti rammentassi il numero e la varietà delle preghiere che hai rivolto a me nominando il tuo Gioacchino. Ma noi dobbiamo sovrintendere a troppi fatti, per poter rimanere a lungo su di uno solo. Perciò, Laura, s’hai coraggio, ascoltami: l’agave prepara in un anno la tessitura del fiore che in un minuto appassisce. Cogli dunque questa offerta pria che sia andato.

LAURA – Impietrita ed incredula sto, dinanzi a tale improvvisa misericordia!

AMORE – Affinché l’uomo non si sdegni a tal punto da riporre credenza verso i falsi dèi, prendiamo talvolta sembiante umano, mostrando quanto è in nostra potenza. Mia madre ti ha scelto, ed io eseguo; ecco un porcino. Uno dei più grossi e aulenti apparsi in terra. L’uomo a cui lo donerai cadrà preso di te non appena lo assaggerà. Egli sarà tuo per sempre. Non vorrà che calpestare le tue orme, riecheggiare le tue parole, e vivrà per dare soddisfazione ai tuoi sogni ancor prima che tu li palesi. Doni come questo sono irresistibili al cacciatore, ché troppo bene si sposano con la carne della selvaggina.

LAURA – Lascia, o dio, che mi riabbia e degnamente ti ringrazi; dimmi come e io darò soddisfazione al tuo dono. C’è una qualche cosa che una piccola donna possa fare?

AMORE – Niente è qui che noi desideriamo. Ecco il porcino; eccoti un nuovo destino. (Sparisce tra gli alberi)

LAURA – O Amore, Amore, mi lasci con in dono il cuore del mio mondo, e non ho avuto una parola degna di renderti grazie. Tu mi rendi la fede dopo anni di mestizia. Amore che eri troppo alto, sei sceso da me senz’altro pretendere. Possa il cielo tutto ringraziarti per me, ogni giorno della mia felicità io canterò la tua potenza e la tua misericordia. In ogni carezza, in ogni bacio, in ogni gioiosa lagrima io…

Appare Gioacchino a cavallo.

GIOACCHINO – Laura, c’hai tu sempre a vaneggiar di delicatezze, tanto da dichiarare l’amore tuo a un porcino. Invero il tuo animo è grande, ed ha infatti scelto il più grande porcino che abbia mai veduto.

LAURA – No, questo, mio caro, è in effetti un regalo che io faccio a voi.

GIOACCHINO – Sia mai! Lo pagheranno molti ducati al mercato di Mantova.

LAURA – No. Io per voi l’ho avuto tra le mani, ovvero, l’ho colto. A voi ora lo dono.

GIOACCHINO – Non mi ostino al rifiuto, ma per non virare al cattivo gesto, ne rispondo con uno altrettanto buono: Saverio ha appena fatto secco un piccolo daino, proprio tra quegli alberi da dove siam giunti. Uniremo quindi queste delizie donateci dagli dèi. Saverio, Roberto! Spellate il daino e prepariamo un fuoco, che si possa mangiar pria che il sole discenda!

LAURA – Oh, da quante lune non aspetto che questo.

GIOACCHINO – Che dici Laura, che non mangi forse da diverse lune?

LAURA – Invero il mio corpo è ben nutrito, è la mia anima ad aver fame.

GIOACCHINO – Il tuo corpo cresce bene Laura, ma i tuoi discorsi ancora sono lontani dal senno. Dunque Saverio, porta qui le vivande e il vino, staremo qui con Laura e qui mangeremo.

Atto II, scena IV

Ancora nella selva. Laura e Gioacchino passeggiano mano nella mano. La faccia di lei è triste e pensosa, Gioacchino è quasi sognante, e guarda intensamente Laura.

GIOACCHINO – Dubita che le stelle siano fatte di lava,
dubita che la notte sia buia,
dubita che dopo l’estate vi sia l’autunno,
ma del mio amore non dubitare affatto.

Non chiedermi più la misura del mio amore,
Laura, perché la causa stessa è fuori misura!

LAURA – È lo stesso per me.

GIOACCHINO – Giuro su questa spada che ti amo,
e ricaccerò in gola la parola
a chiunque ti dica che son falso!

Ahimè, è tanto il cuore con cui t’amo,
che non me ne rimane più per dirtelo.

LAURA – Anche io, davvero, parole non ne ho più.

GIOACCHINO – Desidero ciò che possiedo; il cuore mio,
allo stesso modo del mare, è privo 
di limiti;
e ancora come il mare, 
il mio amore è profondo:
più te ne do
 e più ne ho,
poiché entrambi sono infiniti.

LAURA – Gioacchino, ti prego. Va’ e prendimi dell’acqua, credo si sia vicini al ruscello (Gioacchino esce.). Me triste, misera, tapina, sciocca, vuota più di una zucca seccata! Come ho potuto io domandare l’amore, come si compran verzure al mercato. E come ho potuto non oppormi, nel giorno in cui m’è stato donato, senza pensare all’infelicità di aver dinanzi uno incantato dall’alto invece d’un amor sincero? Il mio amore vive di un’anima morta, di una causa senza vita, non di umane passioni ma di forze ultraterrene, eterne e così distanti, che il carattere del mio caro Gioacchino è così lontano. Io non odo parlar parole sue, ma echi di una potenza lontana, egli mi parla da pochi passi eppure non è, e come volentieri tornerei indietro e riaverlo assennato, seppur non innamorato. Così mi darei pace e certo troverei di che consolarmi senza causare più l’infelicità di nessuno (Entra in scena un piccolo daino). Ecco, tu, piccola bestiola, se tu incarnassi Amore come facesti in quel giorno funesto, io ti chiederei ancora e ancora mille volte di tornare sui tuoi passi… di sciogliere il povero Gioacchino da questo forzoso legame. È triste possedere il corpo amato, il pensiero amato, il cuore amato, mentre l’anima che vi fluisce dentro è obnubilata dall’incanto! Se la vista di questi colli fosse sempre coverta dalle nebbie di novembre, sarebbe come se essi non esistessero più. Amore portami estate che rischiari la mente di Gioacchino, e lo faccia rivivere com’era prima che l’egoismo mio lo rendesse un pupazzo! (Il daino zampetta dietro un albero)

AMORE – La tua disperazione ti porta a tanto, a questuare presso le bestie della foresta…

LAURA – Dunque, eri tu davvero? Nume mio prediletto, sei sceso ancora per accontentarmi? Rispondi dunque, che il batticuore mi spacca le viscere! Ti prego, liberami da questo giogo, da questo amore solo di nome!

AMORE (Entrando in scena in sembianze umane) – Non siamo fatti noi dèi per piegarci alla pietà per gli uomini, ma per far dei loro destini ciò che più ci piace. Solo per questo, come hai fortemente voluto, già una volta son mandato per accogliere la tua preghiera. Quella preghiera fu eterna e vincolante. Quanti re hai veduto saper conquistare un castello, ma non saperne poi governare il dominio? Tale è l’amore: la conquista, la lotta, il suo ottenimento, è un fatto; ben altro fatto è amministrarlo e ben governarlo, mantenerlo acceso negli anni. Accendere un fuoco e saperlo mantenere vivo fino a sera, son due talenti diversi. Ora a te, Laura, è ben presente questa differenza. Hai forzato una battaglia per vincerla con lo scettro di un dio, su di te pesi ora il governo. Per cotesto, io dico, no: sii una buona governante, mia brava conquistatrice. Sarai la musa di Gioacchino per sempre. Addio. (Esce)

LAURA – Miserere! O disperazione! Non mi lasciare così. Ho destinato due giovani e buone anime all’infelicità eterna: sciocca, ancora mille volte sciocca, e cieca dinanzi alla mia passione di fanciulla. È affogando nell’amarezza degli errori che si doventa donna? Mi chiedo per quale motivo l’amore, che ha sembianze cosi’ dolci, si riveli alla prova dei fatti cosi’ agro e tiranno. I nostri cuori e i nostri destini vanno in direzione opposta, Gioacchino, i nostri calcoli son rimasti capovolti: i progetti sono nostri, ma non i risultati. Tutte queste mie parole si alzano in cielo mentre i miei gesti rimangono terreni; le parole senza i gesti, da sole, non possono andare in paradiso. Devo essere destinata agl’inferi per avere la giusta pena. Ma no: la morte, adesso mi sarebbe balsamo calmante, e certo non mi merito di scappar con codardia da questa mia pena, perché da quella che ho assicurato a Gioacchino lui non potrà salvarsi. Allora me ne andrò, da qui! Fuggendo le genti e i paesi, vivendo selvaggia, in solitudine, più selvaggia dei mie anni di gioventù: certo saprò trovar riparo e nutrimento, e non cercherò l’abbraccio caldo di nessuno. Così la mia pena sarà paragonata a quella di Gioacchino disperato nel non trovarmi, e gli dèi tutti lo perdoneranno se compirà scempiaggini, perché la volontà sua non è sua davvero, come invece lo fu la mia. Accordatemi dunque di scontare la pena dei peccati di tutti e due, perché i miei solo miei sono, e ancora miei son anche quelli del mio amato Gioacchino, che non è più, per colpa mia. Così mi condanno a tal punto, per il mio orgoglio virginale. (Esce)

ISTRIONE – Sola rifugge, Laura dolce ma esiziale,
da fanciulla a donna maturata in cattiveria,
ch’ormai hai imparato, e noi con lei:
Dove s’incontran le cose divine e quelle terrene,
difficilmente si scontrano senza causar pene.

Non ci dovete rimproverare
Se vana e sciocca sembrò la storia;
Ne andrà dissolta ogni memoria,
Come di nebbia se il sole appare.
Solo un vecchio detto ne porta ricordo:
di questa leggenda ancora si dice,
quando dal bosco si sente un guaìto,
il vecchio sa: non è grido di pernice,
ma tal è il “lamento di Giacchino”.
E subito si racconta la leggenda
Per la sciocchezza della quale
Io or ora faccio ammenda.

E com’è vero ch’io son attore
onesto e semplice, sincero e schietto,
Se pure ho colpe, non mai ho avuta
Lingua di serpe falsa e forcuta;
Pago l’ammenda senza ritardo,
O mi direte che son bugiardo.
Ora vi auguro sogni felici,
Se sia ben vero che siamo amici,
E ad applauso tutti vi esorto,
Poiché ho promesso che ad ogni torto
Causato da questa tragedia tremenda
Gentile pubblico, faremo ammenda.


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