Antologia delle cose interrotte/4: Charles Bukowski

BIRRA E PUTTANE
di Charles Bukowski

lo sciacquone rotto pisciava come un cavallo. fu quel martellio sgocciollante a svegliarmi, era come un trapano alla tempia. anche oggi l’ho scampata e di sicuro non l’ho chiesto io, baby, di svegliarmi anche oggi, non era nelle mie intenzioni. è che Gesùccristo o Dio o Allah o Buddha o lo Spirito fottutamente Santo mi avevano dato un’altra mano da giocare.

appiccicato di faccia al pavimento del cesso cominciai lentamente a capire quali ossa avessi ancora intere. mossi lenatamente le braccia, le portai al suolo e mi spinsi in su tentando di spostare, con successo, anche le gambe. sembravo una bestia ferita, maledizione. sembrava non ci fosse niente di rotto. a parte l’irrinunciabile incudine sulla fronte, figlio indesiderato di tutte le sbornie, sembrava me la fossi cavata. il pulsare della testa era più lancinante di sempre e aveva qualcosa di diverso. in bocca un sapore acre e pastoso. fu solo quando, tentando di rimettermi in piedi come un cane investito sull’interstatale, potei mettere a fuoco la sensazione di appiccicaticcio sul viso, che mi accorsi che le piastrelle, i vestiti, le braccia, la faccia, tutto era un Pollock di sangue. allora distinsi bene il normale mal di testa dai dolori di un naso fracassato, e d’improvviso ricordai tutto…

quel figlio di puttana di Fred mi aveva seguito fino a casa e fradicio com’ero, non aveva avuto bisogno di sforzarsi troppo: un sinistro diretto sul grugno è stato più che sufficiente per stendermi. non gli andava giù che guardassi Jacqueline. non si può neanche più guardare cazzo, a uno scrittore ubriaco osannato dai giornali di mezza America non si concede neanche di guardare una fica. a che cazzo serve l’osanna, mi domando io, se non posso neanche guardare una fica.

rimugino sulle mie disgrazie quando sento bussare con forza alla porta. Madison tornava a chiedere l’affitto. ero in arretrato di mesi. forse sarei riuscito a calmarlo anche stavolta, riesco ad alzarmi e a bofonchiare un “arrivo cazzo sono al cesso”. mi sposto in camera ed è un macello, un maledetto macello

forse incosciente, non mi ero accordo che a Fred non era bastato il mio naso – che nel frattempo si era rimesso a spruzzare sangue – ma aveva finito per sfogarsi su qualsiasi cosa. aveva fracassato gli specchi e sfondato il letto. la credenza in cucina, non so come, era a pezzi e quel poco che era nel frigo disperso per la casa. non avrei mai potuto pagare i danni e gli affitti, era il caso di tagliare la corda.

metto insieme due cose utili e salto sulle scale antincendio, con pochi spiccioli prendo la prima corriera per New Orleans senza nemmeno salutare questa città del cazzo. non era bene tornare a New Orleans, nessuno dovrebbe tornare dov’è cresciuto, se non è cresciuto bene. io a volte dubito di essere cresciuto. se arriverò ad essere vecchio, forse sarò vecchio senza essere stato adulto. rischiavo grosso a tornare dove tutto era iniziato, e lo sapevo.

arrivo a Union Station. non faccio in tempo a scendere dal bus che devo vomitare un grumo di sangue e roba giallastra. il conato mi procura un dolore al naso che mi viene quasi da staccarmelo di netto a mano. ho bisogno di una birra, entro nel primo posto che vedo.

forse c’è un gran puzzo di fumo e sudore di puttane qui dentro ma, come immaginate, non ho più organi a disposizione per accorgermene. ordino una brown ale ad una cow-girl su degli stupidi pattini – come si fa a mettere su ad una donna una camicia a quadretti e un paio di pattini, dico io! – e quando alzo gli occhi per prenderla per il culo, Cristo Santo, chi vedo! era lei. Madeleine. maledetta Madeleine, riuscirò mai a scappare da te, figlia di puttana?

si tratta di vent’anni fa, cazzo, un’altra vita, quando ero cotto come una costata d’agnello e io sognavo solo di leccarla. Leccarla da tutte le parti, sotto, sopra, volevo succhiarla come un frozen yougurt. sarei tornato a casa gonfio come il copertone di un pick-up, ma sarebbe stato solo per lei. non l’ho mai fatto per nessuna. se prometti queste cose a una donna lei non ci crede neanche morta, anzi, certe se non glielo metti dentro pensano che non sono abbastanza attraenti invece io pensavo proprio il contrario, che fosse irraggiungibile, incolmabile, che non potessi sporcare la sua santità per avere un piacere così sudicio, lo stesso piacere che ho preso da mille puttane, per questo doveva essere un dono gratuito, senza niente in cambio, un Gesù Cristo del sesso che dà senza volere niente… sarà questo che chiamano amore? non lo so, nel caso mi ci si sento vicino, ma ovviamente non lo dicevo. quella sera che glielo proposi tornai a casa solo, e ricominciai a vomitare tra una birra e un’altra. non la rividi più e lei continuò a farsi chiunque fosse in grado di pagarle da bere o darle una cazzo di mancia, mi dicevano, fu allora che levai le tende da questa città che non mi dava più Madeleine da leccare.

insomma balzo in piedi e le dico “hey piccola sono Buck, piccola, sono io sono tornato. si non ho una grande faccia lo so ma sai, i soliti casini, e tu come te la passi?” una cazzo di frase da cretino qualunque. Charles Bukowski, quello arrivato ad uno sputo dal Nobel, davanti a Madeleine parla come uno stupido contadino del Kentucky.

Avrei voluto sfilare ad una ad una le parole migliori di ogni linguaggio, metterle accanto come il miglior poeta sa fare, quelle parole che da sole fanno fremere ma accuratamente accostate l’una all’altra, tra le pause e le virgole e i puntini di sospensione, fannno tremare i fondamenti dell’anima e mettere in dubbio il proprio stesso esistere; avrei voluto cavare da ogni aggettivo la qualità migliore da dare ai suoi capelli, alla sua pelle, ai suoi seni, non per farla sentire la miglior cameriera del Jeans Pub, ma la miglior forma di vita messa insieme dal Signore stesso. Io avrei potuto, io, se davanti a lei avessi avuto la forza di essere ancora io, io l’avrei scaldata come il miglior amante sa fare con la donna per cui morirebbe.

e mentre balbettavo idiozie sento le mani enormi del “Fred” di turno che mi afferrano le clavicole e mi fanno compiere una parabola innaturale terminata sulle assi di legno piene di mozziconi di sigaretta. cazzo che botta, roba da rodeo, vorrei chiedere scusa e fare una battuta sarcastica ma sa il Signore se avevo la forza a malapena di respirare, cazzo. un paio di pedate all’addome e mi trovo a vomitare ancora dal dolore sul marciapiede davanti a Union Station. mi giro convinto di vedere almeno uno sguardo preoccupato ma niente, Madeleine aveva ricominciato immediatamente a farsi toccare il culo dai clienti per aumentare la mancia. lo sapevo che finiva così, in questa città per me è sempre così, New Orleans puzza di birra e puttane così come le puttane puzzano di New Orleans. non posso che cercare qualche amico o magari mio cugino Frank per passare la notte e magari mi allunghi qualche bigliettone. devo solo aspettare con santa pazienza il giorno in cui, finalmente, Gesùccristo o Dio o Allah vorranno farmi il piacere di lasciarmi in pace. nell’attesa, sempre e solo puttane e birra, birra e puttane, solo birra e buttane per Buck a New Orleans.


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